Dàzio-s. m. [lat. mediev. datio (-onis), Imposta indiretta sui consumi] è forse negli ultimi tempi la parola più cercata sul web. Tutti vogliono sapere il significato della parola che ha sostituito “covid” quale termine più utilizzato in tv, sui giornali e nelle chiacchiere da bar.
Mentre “coronavirus” è stato solo di recente inserito nei vocabolari, “dazio” è una parola che esiste da secoli. Senza andare troppo indietro nel tempo è sufficiente tornare al dopoguerra e ad una situazione che, forse i più anziani ricordano ancora con tristezza. In Italia, il dazio era un’imposta applicata sulle merci che venivano introdotte o trasferite da un territorio all’altro, sia all’interno del Paese che alle frontiere. Erano imposte comunali che si pagavano sulle merci che entravano in una città o un comune. I prodotti colpiti erano in genere beni di largo consumo come vino, olio, farina, carne, zucchero, ecc. I dazi servivano a finanziare i bilanci dei comuni e si pagavano al “casello del dazio”, un punto fisico di controllo posto alle porte delle città, dove le merci venivano ispezionate e tassate.

Come dicevamo, oggi non si parla d’altro. Ma è davvero così grave? Veramente stiamo tornando ad un periodo di frontiera? I dazi introdotti da Trump ci renderanno tutti più poveri? Dopo l’abbattimento di molte frontiere fisiche e di tutte quelle virtuali, l’idea di casello o di blocco sembra davvero fuori dal tempo, ma, come accaduto appunto nel dopoguerra, quando nacquero piccole produzioni interne ai comuni per evitare le tasse sui beni importati, anche oggi un aiuto alla soluzione del problema potrebbe essere proprio lo sviluppo di un mercato interno europeo. Infatti se una fra le soluzioni al calo delle importazioni da parte degli Usa di prodotti e servizi europei sembra essere l’individuazione di nuovi mercati non ancora molto esplorati come India, Messico o Sudafrica, un aiuto al calo delle esportazioni può provenire anche dall’aumento degli scambi all’interno dei mercato europeo. L’Europa (UE) importa dagli Stati Uniti beni per 347 miliardi di euro a cui si aggiungono circa 427 miliardi per servizi. Fra i beni maggiormente importati: petrolio, gas naturale e prodotti medicinali e farmaceutici. Stranamente proprio i farmaci sono anche fra i prodotti che l’Europa esporta maggiormente negli USA oltre agli autoveicoli. Anche se nel brevissimo tempo non sarebbe possibile un’ eventuale sostituzione dei prodotti farmaceutici americani con quelli europei, il fenomeno merita un’analisi approfondita.
Un altro esempio riguarda il petrolio che, pur in quantità minore, la Norvegia esporta negli Stati Uniti e che potrebbe in parte sostituire le migliaia di barili importati proprio da quel paese.
E i singoli cittadini possono fare qualcosa? Tramite appositi accordi a livello europeo tra governi, unioni industriali, associazioni di categoria e di consumatori sarebbe possibile promuovere iniziative per favorire lo spostamento delle scelte dei cittadini da quelli made in Usa e non soloverso prodotti e servizi europei, valorizzando la qualità, l’innovazione e la sostenibilità del made in EU.
E’ necessario informare i consumatori sui benefici ambientali e sociali, ma principalmente economici, delle “scelta” europea”. Tutti gli stati membri hanno prodotti e servizi di eccellenza che non vengono valorizzati e pubblicizzati abbastanza e spesso sopravanzati da quelli presenti nelle piattaforme on line, molte di marca statunitense o cinese.
Scegliere europeo non è sicuramente la soluzione ai dazi di Trump, ma è una iniziativa che potrebbe aiutare i bilanci dei vari paesi ad assorbire più velocemente il calo delle esportazioni verso gli Usa.