Il Vaticano non è uno Stato con un’economia classica, anche se gestisce numerose attività, proprietà, fondi e cittadini. E pur non avendo una gestione tradizionale, il suo bilancio ha fatto registrare, negli ultimi anni, deficit finanziari spesso superiori ai 40-50 milioni di euro, disavanzo che ultimamente ha raggiunto quasi i 100 milioni.
Gli analisti hanno sintetizzato che il deficit vaticano è il risultato di una combinazione di fattori strutturali, gestionali e straordinari e hanno indicato fra le cause principali del disastro finanziario, gli elevati costi di gestione. Il “personale” del Vaticano, lo stato più piccolo del mondo, è, in effetti, molto numeroso: sono più di 4.000 i dipendenti che ricevono stipendi e pensioni e il totale ammonta a quasi il 25% di tutto il bilancio rappresentandone così la voce passiva più alta, seguita da vicino da quella che si riferisce alla gestione d’immobili storici, musei, enti religiosi e culturali che richiede somme di mantenimento ingenti.

A fronte di spese elevate, negli ultimi anni sono invece calate le entrate. La sfiducia nell’istituzione Vaticano, il Covid e la crisi economica mondiale hanno determinato un forte calo dell’Obolo di San Pietro, che rappresenta la donazione dei fedeli e di grandi sostenitori e dei contributi delle diocesi nel mondo. Anche i Musei Vaticani che sono da sempre, grazie all’ingente patrimonio artistico e storico, una delle principali fonti di reddito, e durante la pandemia hanno perso oltre il 90% degli incassi. E infine molti appartamenti di proprietà della Santa Sede sono stati, negli ultimi anni, affittati a canoni calmierati o sono risultati sfitti, anche se tale situazione con il Giubileo sembra aver invertito la tendenza.
A tutto questo Papa Francesco, forse in ritardo, ha provato a mettere rimedio. Basti pensare che solo nel 2014 è stato approvato il primo bilancio consolidato. Fino ad allora ogni dicastero gestiva autonomamente fondi e investimenti, spesso in modo inefficiente.
Ad aggravare una situazione economica non certamente oculata si sono aggiunti i numerosi scandali, finanziari e non, che hanno determinato nel tempo spese legali elevate, indennizzi e perdite patrimoniali, ma, soprattutto, crollo della reputazione con effetti negativi su raccolta fondi. Scandali come il “Palazzo di Londra” hanno comportato perdite di decine di milioni di euro, tutto consentito dalla mancanza di controlli interni e trasparenza che ha permesso investimenti rischiosi spesso gestiti da consulenti esterni con interessi in conflitto.
Solo per ricordarne qualcuno quello che più scosse l’opinione pubblica negli anni ottanta è sicuramente il caso dello Ior, l’Istituto per le Opere di Religione. La cosiddetta “banca vaticana”, nel 1982 è stata al centro dello scandalo del Banco Ambrosiano: il presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, trovò la morte in circostanze misteriose a Londra. Lo IOR era azionista del banco e coinvolto nel crac finanziario da miliardi di lire. L’allora presidente dello IOR, monsignor Paul Marcinkus, fu accusato, ma mai processato grazie all’immunità vaticana.
Passando agli anni 2000 un’altra situazione con tante ombre che ha coinvolto il Vaticano, è stato il caso Vatileaks. La diffusione di documenti riservati pubblicati dai media fece conoscere al mondo gli sprechi, la cattiva gestione finanziaria e le lotte interne per il controllo dei fondi all’interno della Santa Sede. In seguito a tali notizie furono eseguiti arresti e decise condanne per dipendenti vaticani, tra cui il maggiordomo di Benedetto XVI.
Forse anche questi eventi influenzarono nel 2013 la decisione di Benedetto XVI di dimettersi, ma gli scandali speculativi non erano finiti: tra il 2014 e il 2018, infatti, il Vaticano ha acquistato un palazzo di lusso al 60 Sloane Avenue, Chelsea, uno dei quartieri più esclusivi di Londra. L’operazione è costata circa 350 milioni di euro, di cui una parte proveniente dall’Obolo di San Pietro e cioè dai fondi donati dai fedeli e destinati a opere caritatevoli. L’immobile fu acquistato con strutture finanziarie opache attraverso fondi offshore. La Segreteria di Stato non aveva competenze o autorizzazioni chiare per compiere operazioni speculative che determinarono perdite per oltre 100 milioni di euro tra costi gonfiati, commissioni sospette e rivalutazioni negative dell’immobile. Lo scandalo del Palazzo di Londra è uno dei più gravi e complessi casi finanziari nella storia recente del Vaticano con un processo penale a un cardinale, cosa mai avvenuta prima.
Il cardinale coinvolto era Angelo Becciu, che in questi giorni, giacché non scomunicato, ha anche provato a partecipare al Conclave per l’elezione di Papa Leone XIV. Becciu, che all’epoca era Sostituto della Segreteria di Stato, ruolo chiave nella gestione amministrativa vaticana, è stato accusato di peculato, abuso d’ufficio e favoritismi. È stato destituito da Papa Francesco nel 2020 e poi processato. Proprio per consentirne il processo Papa Francesco ha modificato il codice vaticano. Iniziato nel luglio 2021 con dieci imputati tra cui finanzieri e uomini di spicco del mondo finanziario internazionale come Enrico Crasso, ex banchiere Credit Suisse e consulente finanziario della Segreteria di Stato, il processo è terminato con la sentenza finale che ha visto Becciu condannato, in primo grado, a 5 anni e 6 mesi di reclusione per peculato, altri imputati con pene minori o assoluzioni parziali e un risarcimento di milioni di euro per il Vaticano.
Per rimediare alle perdite, evitare che situazioni simili potessero ripetersi ma soprattutto per recuperare il danno alla credibilità e la perdita di fiducia dei fedeli, Papa Francesco ha varato la Riforma degli investimenti vaticani.
Una “piccola rivoluzione”: a) la Segreteria di Stato non ha più il controllo sui fondi e sugli investimenti, e tutti gli asset sono ora gestiti dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, con un forte rafforzamento delle leggi anticorruzione e antiriciclaggio; b) la creazione della Segreteria per l’economia, un nuovo dicastero con ampi poteri di controllo su tutte le attività economiche e amministrative della Santa Sede, in particolare sull’Obolo di San Pietro e la ristrutturazione dello IOR, con audit e maggiore collaborazione con le autorità internazionali; c) l’introduzione di nuove norme anticorruzione che prevedono, oltre a una trasparenza obbligatoria nei bandi pubblici e negli appalti vaticani, regole che impongono ai dirigenti vaticani di dichiarare i propri beni e interessi economici, evitare conflitti d’interesse e rifiutare regali superiori ai 40 euro.
Tale riforma è stata spesso criticata per essere arrivata troppo tardi e con effetti limitati, ma bisogna anche considerare che queste riforme sono state senza precedenti nella storia moderna della Chiesa e hanno incontrato forti resistenze interne, ma rappresentano un chiaro tentativo di allineare il Vaticano agli standard internazionali di governance.
Sarà sufficiente per raggiungere l’obiettivo di risanare le finanze del Vaticano?
Certo aumentare trasparenza, legalità e responsabilità nell’uso delle risorse economiche sono un passaggio importante, ma a breve saranno necessarie misure più incisive e rapide. Considerando che le uscite, a parte la piccola riduzione sullo stipendio dei cardinali decisa da Bergoglio, sono incomprimibili, almeno a breve termine, bisognerà agire sull’aumento delle entrate. L’Obolo di San Pietro, principale forma di donazione dei fedeli, è in forte calo negli ultimi anni, da oltre 100 a meno di 50 milioni di euro. E qui conterà molto la partecipazione di donatori americani ed europei. L’elezione di Prevost avrà soddisfatto le loro aspettative? In molti sono pronti a giurare di no. E allora cosa fare. Un’ipotesi potrebbe essere potenziare i Musei Vaticani che producono oltre 100 milioni di euro l’anno. Ampliando orari, esperienze esclusive, visite notturne, eventi privati e offerte digitali come le visite virtuali, editoria e merchandising si possono aumentare le entrate. Una seconda ipotesi riguarda le centinaia d’immobili del Vaticano a Roma e nel mondo. Alcuni non generano reddito o sono sottoutilizzati. La riforma di Papa Francesco potrebbe risolvere in parte il problema. La gestione del patrimonio affidata al nuovo dicastero attraverso affitti commerciali trasparenti, ristrutturazioni per scopi ricettivi e una cessione controllata di beni secondari consentirebbe ulteriori entrate che terrebbero lontana quella soluzione che i pessimisti vedono come l’unica soluzione: la vendita di parte del patrimonio artistico e storico della Santa Sede, ma che nessuno all’interno del piccolo stato osa nemmeno nominare.