Quanto ci vorrà prima che anche nel Belpaese ci troviamo di fronte a scene come quelle che vediamo nei film e nelle fiction Usa che non nascondono la barbarie della sanità americana: “Sei malato? Hai un’assicurazione privata? No, non puoi permettertelo? Non possiamo aiutarti, tieniti il tuo male, muori pure magari”. A questo proposito si può consultare l’ottimo servizio di Milena Gabanelli sul Corriere della sera). Con l’intramoenia, ovvero la pratica che permette ai medici di esercitare la libera professione all’interno delle strutture pubbliche, la sanità italiana ha imboccato da tempo una china analoga. Malati che non si curano e sale d’attesa dove il tempo si dilata all’infinito e dove pazienti angosciati attendono il proprio turno: è la condizione normale della stragrande maggioranza delle strutture sanitarie pubbliche italiane. E questo mentre negli stessi locali l'”intramoenia, crea una corsia preferenziale per chi può permettersi di pagare, una corsia che inevitabilmente allunga i tempi per chi, invece, deve affidarsi esclusivamente al servizio pubblico. La disparità di trattamento, l’ingiustizia del sistema dove chi può pagare si cura e gli altri si arrangiano è evidente.
Ma non è solo una questione di tempi. C’è anche quel sottile, ma persistente, conflitto d’interessi, quella zona grigia dove il confine tra pubblico e privato si fa sfumato. Il medico, figura di riferimento, di fiducia, si trova a dover bilanciare due ruoli, due mondi, e il rischio che l’ago della bilancia penda verso l’attività privata, anche quando non strettamente necessario, è sempre presente. E poi, c’è quella mappa dell’Italia, disegnata con colori diversi a seconda delle regioni, dove l’intramoenia assume forme e regole differenti, creando un mosaico di disparità, dove l’accesso alle cure e la qualità dei servizi variano a seconda del luogo di residenza.
E mentre tutto questo accade, il servizio sanitario nazionale, già provato da risorse limitate e da una domanda in costante crescita, rischia di indebolirsi ulteriormente, come un albero che perde le sue foglie. La recente sentenza della corte costituzionale ha cercato di porre un freno a questo fenomeno, stabilendo che i medici in regime di esclusiva con il SSN non possono svolgere attività di intramoenia in strutture private accreditate con il SSN, un passo importante per cercare di ripristinare un equilibrio. Ma la strada è ancora lunga, e richiede un impegno collettivo, una volontà di cambiamento che parta dalla consapevolezza delle storture esistenti e che si traduca in azioni concrete, in scelte coraggiose, per garantire a tutti i cittadini, senza distinzioni, il diritto alla salute.
Il sistema sanitario italiano, fondato sul principio universalistico dell’articolo 32 della Costituzione, garantisce teoricamente cure gratuite o accessibili a tutti. Tuttavia, da decenni convive con un meccanismo controverso: l’intramoenia, ovvero la possibilità per i medici del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) di effettuare prestazioni private a pagamento all’interno delle strutture pubbliche. Questo strumento, regolato dalla legge 251/2000, nasce con l’obiettivo di trattenere i professionisti più qualificati nel settore pubblico, permettendo loro di integrare il reddito. Nonostante le intenzioni, l’intramoenia solleva interrogativi etici e pratici, soprattutto per i cittadini che non possono permettersi di pagare per accedere a cure più tempestive.
Numeri e diffusione dell’Intramoenia
Secondo i dati più recenti dell’Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali), nel 2023 circa il 35% dei medici pubblici italiani ha aderito all’intramoenia, con picchi del 50% in regioni come Lombardia, Veneto e Lazio. Le specialità più coinvolte sono ortopedia, cardiologia, radiologia e chirurgia, settori in cui le liste d’attesa pubbiche superano spesso i 6 mesi. Sul fronte delle strutture, il 60% degli ospedali di grandi dimensioni (con oltre 500 posti letto) offre servizi intramoenia, contro il 20% delle strutture più piccole, concentrate soprattutto al Sud.
I ricavi generati da questa pratica sono significativi: si stima un giro d’affari annuo di 1,2 miliardi di euro, con singoli medici che arrivano a guadagnare fino a 100.000 euro l’anno in attività private. Tuttavia, solo una minima parte di questi introiti (circa il 15-20%) viene reinvestita nelle strutture pubbliche, sotto forma di canoni o contributi.
I Problemi per gli utenti fragili
L’intramoenia crea un sistema a due velocità: chi può pagare accede a visite, esami e interventi in tempi brevi, mentre chi dipende dal SSN affronta attese spesso insostenibili. Secondo il Censis, nel 2022 il 22% degli italiani ha rinunciato a cure necessarie per motivi economici, e per questi cittadini l’intramoenia non è un’opzione. Le conseguenze sono gravi: ritardi diagnostici, peggioramento delle patologie e, in casi estremi, mortalità evitabile.
Un esempio emblematico è quello dell’oncologia: in molte regioni, una risonanza magnetica in intramoenia si ottiene in 72 ore, mentre nel pubblico si attendono 3 mesi. Per pazienti con sospetti tumori, questo divario può tradursi in una progressione della malattia. Inoltre, esiste il rischio concreto che i medici dedicino più energie ai pazienti privati, svuotando di fatto il servizio pubblico della sua funzione sociale. Un’indagine della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOMCeO) ha rilevato che il 40% degli specialisti in intramoenia riduce volontariamente gli orari di lavoro nel SSN per concentrarsi sulle attività private.
Criticità strutturali e proposte di riforma
Il modello attuale dell’intramoenia presenta diverse distorsioni:
- Conflitto d’interessi: I medici hanno un incentivo economico a mantenere lunghe le liste d’attesa pubbliche per spingere i pazienti verso il privato.
- Sovraccarico delle strutture: Le sale operatorie e i macchinari vengono utilizzati per attività a pagamento, sottraendo risorse al SSN.
- Mancanza di trasparenza: Spesso i pazienti non vengono informati sulle alternative gratuite o sui tempi di attesa reali nel pubblico.
Alcune regioni, come la Toscana e l’Emilia-Romagna, hanno introdotto regole più stringenti, limitando l’intramoenia al di fuori dell’orario di servizio e obbligando a reinvestire almeno il 30% degli incassi nel pubblico. Tuttavia, manca una normativa nazionale omogenea.
Conclusioni
L’intramoenia è un sintomo delle carenze croniche del SSN: sotto finanziamento, personale insufficiente e gestioni inefficaci. Se da un lato è comprensibile la necessità di trattenere i professionisti, dall’altro la pratica rischia di minare l’equità del sistema. Per proteggere i diritti dei più vulnerabili, servirebbero interventi strutturali: aumentare il fondo sanitario, assumere personale e ridurre le liste d’attesa. Finché il pubblico non tornerà a funzionare, l’intramoenia resterà un privilegio per pochi e una condanna per chi non può pagare.