Forse è sbagliato pensare esclusivamente a dove stiamo andando, dimenticando da dove veniamo
Avevo uno, o forse due anni quando i miei lasciarono il piccolo comune nel quale tutti eravamo nati per trasferirsi a Roma con la speranza di un futuro migliore di quello che sarebbe stato se non avessero fatto quella scelta.
Ovviamente di quei primi tempi mi sono rimaste solo alcune foto, perlopiù sbiadite, in bianco e nero, che raccontano un pezzettino di vita in un Comune di poche anime, più o meno mille, divise tra la frazione “di sotto” e quella “di sopra”.
La mia vita, quindi, si è sviluppata tutta nella capitale: l’infanzia, le scuole, gli amici, il lavoro, tutto, con qualche intervallo, soprattutto da bambino, quando i miei lasciavano me, mio fratello e mia sorella, dai nonni durante le vacanze estive o quando, sporadicamente, si tornava nel “paesello” in determinate occasioni, come il Natale, il primo novembre o la Pasqua.
Ricordo quei giorni come giorni bellissimi, giorni in cui si riacquistava, o meglio, si acquistava quella serenità, quella tranquillità e quella sicurezza che già a quei tempi a Roma erano sicuramente minori. Si usciva a tutte le ore e si rientrava tardi a casa, con la consapevolezza che comunque anche se i nonni erano andati a dormire (loro lavoravano la terra, quindi dovevano alzarsi necessariamente presto) avremmo trovato la chiave nella toppa della porta.
Gente per strada, allegra, felice con poco…e io mi ritrovavo in quel clima.
Con il passare degli anni le occasioni di tornare sono diminuite sempre più: da una parte quel clima stava cambiando, lì, come in tanti posti simili… gli amici se ne andavano fuori alla ricerca di un futuro migliore (come d’altronde avevano fatto i miei genitori), le persone care con gli anni diventavano sempre meno (i rami del nostro albero piano piano si seccano) e, nonostante il riavvicinarsi dei miei genitori al paese che avevano lasciato io me ne sono allontanato fino al punto che quando ci torno, lo faccio solo per deporre dei fiori al cimitero senza poi tornare nelle strade della bella infanzia.
In questi giorni mi sono ritrovato a rileggere l’ultimo libro di Cesare Pavese scritto prima della sua morte, “La luna e i falò”, e una frase, splendida, mi sta facendo riflettere non poco, facendomi porre delle domande sul perché di questa mia scelta che potrebbe sembrare anche snob, ma che sicuramente non lo è, di aver voltato pagina sulle mie origini, sulle mie radici. Dice Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Forse ho sbagliato, per questo tornerò presto lì per cercare di dare una risposta a questo mio dubbio, e spero di poter recuperare parte di quello che, eventualmente, ho perso in quell’aria, tra quella natura e con quella gente.